Paradiso – Canto VI

La forma del paradiso dantesco: un problema matematico

Piergiorgio Odifreddi

Nell’articolo che segue, scritto da Piergiorgio Odifreddi, matematico e saggista, emerge come la struttura del Paradiso di Dante sia così complessa da aver suscitato negli anni l’interesse della comunità internazionale dei matematici, desiderosa di trovarne una spiegazione scientifica. 

In effetti l’intero poema poggia anche su una rigida numerologia, quindi si iscrive nella sua interezza nella dimensione astratta della matematica. Si pensi che i numeri che compaiono con maggiore frequenza sono 1, 3, 7, 9, 10 e altri numeri presenti non sono che multipli di questi. Sul loro significato nel quadro dell’opera dantesca ti rimandiamo all’approfondimento preparato su www.imparosulweb.eu.

Come si può caratterizzare la forma del Paradiso dantesco? Sembrerebbe una domanda per critici letterari, e invece essa ha assillato i matematici per l’intero Novecento, diventando uno dei più importanti problemi aperti del secolo: tanto importante, da entrare a far parte della ristretta lista dei sette Problemi del Millennio descritti in un omonimo libro da Keith Devlin (Longanesi, 2004), per la soluzione di ciascuno dei quali il miliardario statunitense London Clay ha messo in palio nel 2000 un milione di dollari.

Chiunque avesse pubblicato una risposta alla domanda in grado di superare lo scrutinio della comunità matematica per un periodo di almeno due anni, avrebbe intascato la somma. E, se di età inferiore ai quarant’anni, avrebbe anche sicuramente vinto la medaglia Fields, che costituisce l’analogo del premio Nobel per la matematica.

Sembrava che questo fosse il destino segnato per Grigori Perelman, un trentasettenne russo di San Pietroburgo che nel novembre 2002 e nel marzo e giugno 2003 mise in rete una serie di appunti nei quali abbozzava una soluzione del problema. […]

Per capire un po’meglio la formulazione del problema risolto da Perelman, ricordiamo che quando Dante guarda il Paradiso dalla Terra vede i cieli come una serie di sfere crescenti, che raggiungono un massimo nel Primo Mobile.

Per guardare oltre viene accompagnato da Beatrice all’Empireo, dove vede le sedi angeliche come una serie di sfere decrescenti, che raggiungono un minimo in un punto abbagliante, che è Dio.

Beatrice spiega paradossalmente che in realtà quel punto è la sfera maggiore, e racchiude tutto ciò che sembra racchiuderlo: l’universo dantesco si compone dunque di due serie di sfere distinte, una sensibile e crescente e l’altra celeste e decrescente, i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio.

Questa complicata struttura richiama le antiche rappresentazioni cartografiche della Terra mediante due serie di cerchi concentrici, centrati rispettivamente nei due poli. Chi guardasse la Terra dal Polo Sud vedrebbe infatti, come Dante, una serie di cerchi crescenti corrispondenti ai paralleli dell’emisfero meridionale, che raggiungono un massimo all’Equatore. Recatosi su questo, vedrebbe poi i paralleli dell’emisfero settentrionale come una serie di cerchi decrescenti, che raggiungono un minimo nel Polo Nord.

Se però la Terra si aprisse come un fiore, i paralleli settentrionali circonderebbero quelli meridionali, e il Polo Nord si dispiegherebbe intorno a tutto. La rappresentazione cartografica non è che un modo per rappresentare la superficie sferica della Terra sulla superficie piatta di un foglio, e renderla indirettamente comprensibile a esseri bidimensionali che non fossero in grado di percepire direttamente la sua sfericità nello spazio tridimensionale.

Analogamente, la rappresentazione dantesca del Paradiso non è che un modo per rappresentare nello spazio tridimensionale la superficie di un’ipersfera, cioè di una sfera a tre dimensioni immersa nello spazio a quattro dimensioni, e renderla indirettamente comprensibile a esseri tridimensionali come noi, che non siamo in grado di percepire direttamente una quarta dimensione spaziale.

Dante ha dunque proceduto per analogia, inventando più o meno consciamente un’ipersfera tridimensionale che sta alla sfera bidimensionale, come questa sta al cerchio unidimensionale. Una bella intuizione, spiegata nei dettagli da Horia-Roman Patapievici in Gli occhi di Beatrice (Bruno Mondadori).

È un’intuizione che anticipa di secoli l’analoga invenzione letteraria del delizioso romanzo dell’Ottocento Flatlandia di Edwin Abbott (Adelphi, 1993), che offre un’introduzione indolore alla geometria multidimensionale.

Dire che la struttura del Paradiso dantesco è un’ipersfera non è però una risposta alla domanda iniziale, ma solo una sua riformulazione: il vero problema matematico è come si possa caratterizzare l’ipersfera tra le altre superfici tridimensionali dello spazio a quattro dimensioni.

Nel 1904 il matematico francese Henri Poincaré propose una soluzione in una nota a un suo lavoro, procedendo anch’egli come Dante: ovvero, per analogia col caso della sfera o, se si preferisce, della Terra.

Naturalmente, l’essenza della Terra non è di essere più o meno schiacciata ai poli, bensì di avere una forma più o meno sferica e non, ad esempio, a ciambella (per lo meno, di una riuscita col buco). Interessarsi dell’«essenza» e disinteressarsi del «più o meno» è la caratteristica della cosiddetta topologia, «scienza dei luoghi».

E dal punto di vista topologico la Terra è caratterizzata dal fatto di essere l’unica superficie chiusa sulla quale i girotondi di persone si possono contrarre senza rompersi, fino a concentrarsi in un solo punto: se la Terra fosse fatta non come un pallone ma come un salvagente, i girotondi che girassero attorno al buco o attorno al salvagente non potrebbero contrarsi oltre un certo limite, così come nella vita reale non si potrebbe contrarre un girotondo che girasse intorno a un lago o a un palazzo. 

Poincaré congetturò che la stessa cosa valesse anche per l’ipersfera: in altre parole, che il Paradiso fosse l’unica superficie tridimensionale per la quale tutti i girotondi di angeli si possono contrarre senza rompersi.

Analoghe congetture si possono fare per le sfere a più dimensioni, e la cosa sorprendente è che esse furono risolte molto prima di quella originaria per l’ipersfera: precisamente, nel 1960 da Steven Smale per tutte le sfere a cinque o più dimensioni, e nel 1982 da Michael Freedman per la sfera a quattro dimensioni. Naturalmente, sia Smale che Freedman vinsero per questi lavori la medaglia Fields, nel 1966 e 1986.

Rimaneva dunque aperto soltanto il caso della sfera a tre dimensioni, che è appunto quello risolto da Perelman. Il quale era già un famoso matematico anche prima, come dimostra il fatto che fosse stato invitato a parlare al Congresso Internazionale del 1994 e avesse ricevuto nel 1996 il premio dell’Associazione Matematica Europea per i giovani talenti: un premio che, come si può immaginare, aveva rifiutato.

Naturalmente media e pubblico traggono da questi comportamenti del giovane russo l’immediata deduzione che Perelman costituisca un’altra incarnazione del binomio «genio e pazzia», ma la realtà potrebbe essere meno ovvia e più profonda.

Quando per i miei Incontri con menti straordinarie (Longanesi) ho intervistato Andrew Wiles, il matematico più famoso del mondo, gli ho infatti domandato se era dispiaciuto di non essere riuscito a dimostrare il teorema di Fermat in tempo per vincere la medaglia Fields, e lui mi ha risposto: «Se uno dimostra il teorema di Fermat, non gli importa più molto della medaglia Fields».

La stessa cosa vale per la congettura di Poincaré: se uno ha capito la struttura del Paradiso, probabilmente se ne fa un baffo della Terra, compresi i suoi abitanti e i poveri ricchi onori che essi dispensano.

Adattamento da Piergiorgio Odifreddi 
(la Repubblica, 24 agosto 2006)

Un’ultima riflessione in proposito riguarda la complessità e l’estrema articolazione che vivono in una grande opera dell’ingegno. Se pensiamo alla Divina Commedia ci rendiamo conto che tante materie, come quelle che quotidianamente affrontiamo sui banchi di scuola, sono coinvolte: letteratura e grammatica naturalmente, ma anche latino, storia, geografia, matematica, scienze, astronomia, musica, arte, psicologia ecc.

Per usare un termine prettamente scolastico, potremmo dire banalmente che l’opera d’arte è un’opera interdisciplinare. Questo avvalora l’importanza per lo studente di affrontare nello stesso tempo lo studio di più discipline, anche perché queste consentono ciascuna per la propria parte la lettura del complesso sistema della vita, quella vita che solo il genio è in grado di leggere e di restituire con il suo lavoro.