Purgatorio – Canto XIX
Quale canzone cantano le sirene
Alberto Manguel
Narra Svetonio che l’imperatore Tiberio, quando si trovava tra professori di letteratura greca, gli rivolgeva tre domande, le quali secondo l’imperatore, non avevano risposta. La terza era la seguente: «Quale canzone cantavano le sirene?»
Domanda che, come osservò quindici secoli dopo sir Thomas Browne, «sebbene enigmatica, non va al di là di una qualunque congettura». Per tentare una risposta, vediamo quali sono le caratteristiche di tale canto. In primo luogo, è pericoloso, dato che ci attrae irrimediabilmente, facendoci dimenticare il nostro mondo e le nostre responsabilità. In secondo luogo, è rivelatorio, giacché parla di quel che è accaduto e di quel che accadrà, di quello che conosciamo e di quello che non possiamo conoscere.
E infine, può essere capito da tutti, gente del luogo e stranieri, greci e barbari, dato che la maggior parte degli uomini naviga in mare e nessuno sa se incontrerà le terribili sirene. In cosa consiste il pericolo di questo canto? Nella melodia o nelle parole? Nel suono o nel significato? E se tutto rivelano, le sirene conoscono il loro tragico destino, o come specchi di Cassandra alle cui parole nessuno crederà, sono esse stesse le uniche insensibili alla loro musica? …
Cassandra annuncia il terribile futuro cui il paese si rifiuta di credere; Ecuba grida il proprio dolore come irrefutabile conseguenza della violenza, conseguenza che i guerrieri (e tra essi Ulisse) si sforzano di ignorare; Andromaca spiega prima a Ettore e poi a Pirro la teatralità dei loro drammi nei quali, come uomini di guerra, interpretano ciecamente il loro ruolo; Elena cerca di paragonare i suoi pretendenti alla tragica relazione tra la bellezza e la verità; la Sibilla dice verità che non vogliono essere capite; le sirene cantano una canzone in cui ogni uomo legge quel che più teme o quel che più lo attrae.
Per essere decifrata da tutti, ciascuno a modo proprio, quella lingua criptica è, allo stesso tempo, una profezia chiusa e un testo aperto a infinite traduzioni, nessuna esatta e nessuna esclusiva. Ed è quella qualità ambigua e paradossale, ineffabile e trasparente, che la rende universale.
Nella stessa pagina de La Repubblica in cui compaiono le sirene, Platone racconta che, quando i grandi eroi dell’antichità dovettero scegliere reincarnazioni future, l’anima di Ulisse, ricordando quanto l’ambizione lo avesse fatto soffrire nella sua precedente vita, scelse per la sua nuova vita quella del cittadino comune, destino disprezzato dalle altre anime.
In quell’istante Ulisse rifiuta la gloria di Troia, la fama del guerriero inventore e stratega, la conoscenza del mondo dei mari, il dialogo con i cari defunti, l’amore di principesse e di streghe, la corona del vincitore di mostri, il ruolo del rispettabile vendicatore, la reputazione del marito fedele – il tutto in cambio di una vita anonima e tranquilla.
È lecito domandarsi se tale saggezza, sorprendente per un uomo il cui destino è l’avventura, non gli sia stata data proprio nel momento in cui, legato all’albero, fu raggiunto dalle voci delle sirene. Tiresia gli aveva detto che dopo quell’ultimo, misterioso viaggio, la sua morte sarebbe stata serena: «Morte dal mare, ti verrà molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli beati saranno».
Dante non poté concedergliela, e neppure le generazioni di poeti futuri che tradussero, ognuna a modo proprio, il canto delle sirene. Da Omero a Joyce, quasi tutti i poeti vollero, in un modo o in un altro, che Ulisse fosse un eroe avventuriero. Solo pochi di loro, tra cui Platone, intuirono che doveva essere Ulisse stesso a cambiare il proprio destino, scoprendosi infine ai loro stessi occhi nel meraviglioso canto che crede di ascoltare.
Nel IV secolo, l’oratore Libanio, amico dell’imperatore Giuliano l’Apostata, argomentò nella sua Apologia di Socrate che Omero avesse scritto l’Odissea come una lode all’uomo che, al pari di Socrate, aveva voluto conoscere se stesso. Anche Dante riconobbe l’ambiguità che doveva avere quel canto seduttore.
Nel canto XIX del Purgatorio, Dante fa un sogno. Una donna gli si avvicina, «una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba». Dante la contempla e il suo sguardo la rende bella. La donna comincia a cantare e il suo canto incanta il poeta.
«Io son», cantava, «io son dolce serena, che marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena!». Dante chiama Virgilio affinché questi gli dica chi è l’apparizione tentatrice, e Virgilio si presenta e la spoglia, rivelando un ventre immondo il cui fetore risveglia il poeta.
L’immagine della sirena ossessiona Dante, come ci ossessiona l’immagine amorosa che esageriamo fino a renderla falsa. La sirena è, così come vuole far intendere Virgilio al suo protetto, non un’autentica visione erotica ma un riflesso concepito dal proprio desiderio.
Il canto della sirena (o la sirena stessa) sono proiezioni di quel che Dante nasconde a se stesso, ombra del suo lato oscuro, inammissibile e segreto, il testo segreto che il sogno di Dante inventa e che la sua veglia vuole decifrare… Come Dante nel Purgatorio, possiamo immaginare, perché no, che anche Ulisse, «sazio di prodigi», trasformi il canto udito, voce o silenzio, in canto proprio.
Possiamo immaginare che traduca quella lingua universale in un idioma privato e unico, componendo per se stesso una sorta di autobiografia totale, un testo cristallino nel quale Ulisse si riconosce e perfino si scopre. Forse non è in altro modo che funziona la letteratura.
Adattamento da Alberto Manguel
(la Repubblica, 26 giugno 2008)