Purgatorio – Canto VIII

I vizi capitali oggi

Natalia Aspesi

Il Purgatorio come sappiamo è suddiviso in sette cornici, nelle quali si scontano i sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria, e lo stesso Dante ha incise sulla fronte sette P simbolo dei peccati stessi che gli saranno cancellate dall’angelo custode di ogni cornice una volta compiuto l’itinerario di espiazione.

La prima enumerazione dei vizi capitali si deve ad Aristotele che li definì come abitudini che tendono a impedire o a distruggere la crescita morale dell’individuo.

Il primo cristianesimo ne offrì poi l’elenco definitivo, quello accettato da Dante e trasmesso fino ai nostri giorni: la superbia dunque, intesa come desiderio di sentirsi e mostrare la propria superiorità; l’avarizia come desiderio di possesso e custodia dei beni materiali; la lussuria come desiderio del piacere fisico e sessuale fine a se stesso; l’invidia come sentimento di tristezza e dolore per il bene e la felicità altrui; la gola, intesa come abbandono totale al piacere fisico della tavola e non solo; l’ira come sentimento di violenta rivalsa per un torto subito; l’accidia (vedi scheda pag 502) come pigrizia spirituale, inerzia nel vivere e nell’agire verso il bene.

Ma se volessimo rileggerli con la mentalità dell’individuo del XXI secolo cosa se ne ricaverebbe? È quello che ha provato a fare l’autrice dell’articolo che segue, mostrando come i tempi siano cambiati rispetto a quando per la prima volta l’elenco dei vizi capitali fu stilato…

Dove sono finiti i peccati e i peccatori? In televisione, naturalmente, trasformati i primi in nuove simpatiche virtù, i secondi in amabili maestri del nuovo galateo, della nuova morale.

Per questo forse ci sono parole scivolate via, che non viene più in mente di pronunciare perché obsolete, irragionevoli: peccato e vizio, certo, poi di riflesso anche colpa, rimorso, vergogna, penitenza, punizione, espiazione, non hanno più senso né spazio dove è obbligatorio il sorriso, dove dovrà spadroneggiare il solo ottimismo, rappresentato dalla rissa continua, e guai a raccontare la realtà, a suscitare cattivi pensieri, inquietudini, neri presentimenti.

I sette peccati capitali, privati dalla loro terribile sacralità, fanno audience, generano gossip e consenso, alimentano ogni mercato, ispirano deliri pubblicitari.

In televisione, l’ira mimata dei naufraghi dell’Isola dei Famosi provoca i migliori ascolti, e diventa un must di Blob e dilaga su You Tube; il fatto poi che la parola “ira” sia composta da sole tre lettere, la rende preziosa nella titolazione dei giornali, per cui anche un semplice “disaccordo” (dieci lettere!) diventa ira, creando l’immagine di un mondo nuovo e vincente dove tutti, senza peccare, sono sempre fuori di sé.

La lussuria trabocca ovunque, anche in letteratura, soprattutto nei romanzi autobiografici di signore dai letti particolarmente frequentati; ultima moda, americana, quella delle autrici addicted, intossicate dal sesso, che cercano invano di disintossicarsi non per non peccare più ma per la crescente difficoltà a trovare copeccatori disponibili.

La gola trionfa nel mondo occidentale come fosse una nuova religione epocale, degenera nelle malattie dell’eccesso e del rifiuto, si trasforma nell’avarizia più spietata e punitiva verso i paesi della fame.

Così malridotti, avviliti, sfuocati, dimenticati, i peccati si rifugiano ancora una volta, come capita ciclicamente, in quel fortino estraneo e minacciato che è la cultura, dove ricuperano tutta la loro dignità e grandezza, più laica che religiosa, trasformandosi in letteratura, arte, filosofia, sociologia, storia e scienza…

I vizi capitali «come passioni permanenti dell’uomo, come espressione della sua possibilità di scegliere tra bene e male». E per esempio la superbia, radice e regina di tutti i peccati secondo sant’Agostino e san Tommaso, non è più, racconta Bazzicalupo, quella del bellissimo angelo Lucifero che si credeva pari a Dio, né la hybris degli eroi greci, né la vanagloria dei Luigi di Francia né il superuomo di Nietzsche.

Parola quasi dimenticata, la superbia punita da Dio è diventata l’inutile tracotanza, l’insignificante presunzione, il crudele abuso, il volgare disprezzo, il ridicolo delirio di onnipotenza, il vacuo narcisismo, sopraffazione, ingiustizia, razzismo.

O anche solo arroganza, interpretata, secondo Bazzicalupo, dal personaggio politico ricco, di aspetto mediocre e non particolarmente colto: «Ha fantasie di illimitato successo, si considera speciale, unico. Non teme di fare gaffe o errori, perché uno stuolo di adulatori è pronto ad accogliere le sue parole come decisive. E questo gli piace. Pretende che tutto gli sia dovuto, di non dover sottostare alle regole, alle “Leggi uguali per tutti”». 

Ci si può chiedere come mai se i peccati capitali sono diventati obsoleti, si continua a evocarli, per nostalgia o perché nel loro intoccato mistero, consentono ogni interpretazione e sfogo, e manifesto…

Il cinema si è dedicato ai peccati capitali sin dai tempi di Francesca Bertini, c’è il manga Full Alchemist in cui degli esseri chiamati homunculus rappresentano i sette peccati capitali, nel 2003 la Algida mise in commercio una serie limitata di gelati dedicati ai sette peccati, uno psicotest su Internet aiuta a decifrare «di quale città del peccato potresti diventare cittadino onorario?».

L’eremita Evagrio e il suo discepolo Cassiano, sperduti nel deserto egiziano, avevano deciso che i peccati capitali erano otto, poi nella seconda metà del VI secolo Gregorio Magno papa e padre della Chiesa, pensò cristianamente che il numero sette fosse più consono alla fede, e tra l’accidia (acedia) e la tristezza (tristizia) buttò via la prima, poi ricuperata definitivamente in sostituzione della seconda, nel XII secolo.

Ci fosse oggi un eremita Evagrio o una mistica Hildegarda von Bingen a formulare e studiare i peccati contemporanei, li cambierebbero, o ne aggiungerebbero di nuovi: la povertà, la vecchiaia, la malattia, la bruttezza, ogni sorta di diversità, tutto ciò che offende la mistica visione mercantile del successo anche solo virtuale.

Peccati senza riscatto né assoluzione, mentre tra quelli antichi, solo uno resiste come tale, perché inconciliabile con l’esibizionismo della felicità: l’accidia, passata dal confessionale allo studio dello psichiatra, diventata disturbo del comportamento, indifferenza, angoscia, noia, stanchezza cronica, sino all’abisso della depressione.

Benvenuto traccia i sentieri dei mali dell’anima ricordando l’ascesi del monaco medioevale, lo spleen del dandy Baudelaire, la malinconia romantica di Leopardi, la noia di vivere di Oblomov, gli anti-eroi di Cechov, l’angoscia esistenzialista di Heidegger, Sartre, Camus, la lessness, (intraducibile, sostantivando “meno”, forse “menoità”?) di Beckett e ne elenca le cure, dalla borrana e dall’elleboro all’elettroshock e agli antidepressivi.

L’accidia che diventa ciò che gli psichiatri chiamano “depressione maggiore” è legata all’enorme sforzo di esistere nel mondo competitivo e spietato di oggi.

Scrive l’autore, psicanalista e filosofo: «Proprio perché questa società ci richiede ambizioni individuali sempre più alte e narcisistiche, falangi di “perdenti” si dimettono dal Grande Progetto accasciandosi su letti o poltrone…».

La nostra cultura «tra Elogio della malinconia e Gaia denuncia del dolorismo» è ancora divisa su «come valutare la sofferenza psichica».

Come l’accidia, anche la gola interessa oggi più che alla religione, alla medicina, ai dietologi, agli psicanalisti, ai chirurghi.

Gli studiosi si chiedono oggi se si tratti di un vizio volontario o di una predisposizione genetica, se le due grandi disperazioni del mondo occidentale riguardo al cibo, il rifiuto, con l’anoressia, o l’eccesso, con l’obesità, riguardino la tendenza al suicidio oppure il rifiuto del proprio corpo, rendendolo troppo grasso per escluderlo dalla competizione estetica, o così evanescente da superare il confine della magrezza di moda.

Insieme peccato del corpo e dell’anima, colpa e vergogna, ha un lato virtuoso nel dilagare dei suoi trionfi: il cibo come ossessione mondana, come business globale, con i cuochi diventati intrattenitori e divi venerati, con i ristoranti eccentrici e costosi come nuovi paradisi.

Con “il vizio che si vede” perché si iscrive nel corpo, si viaggia dalle cene dell’ingordo Trimalcione e dai digiuni delle mistiche, nelle cucine dei golosi frati medioevali e agli orrendi banchetti di Polifemo, tra i ghiottoni costretti al digiuno nel Purgatorio di Dante e i menu del commissario Montalbano, al fast food ma anche allo slow food, con McDonald’ s e con il cibo biologico, nella smania delle diete, delle palestre, dei centri benessere, dei nuovi interventi estetici che scolpiscono il corpo.

Vista la sua complessità, il suo doppio volto di troppo e di troppo poco, di sconfitta e di successo, la gola può ancora essere considerata un vizio, un peccato capitale, quindi mortale? Nel 2003 i ristoratori di Francia chiesero direttamente al Papa di cancellare un peccato dannoso ai loro affari. Non ci fu alcuna risposta.

Davanti all’epidemia mondiale del sovrappeso, alla globesity, e all’opposto della fame invincibile dei paesi poveri, sono in tanti a chiedersi se la gola ancora “gridi vendetta contro Dio”, quando sarebbe più sensato «parlare di vizi e peccati contro se stessi, anche perché i primi a star male, nel caso del vizio della gola, sono proprio i golosi». 

Adattamento da Natalia Aspesi 
(la Repubblica, 24 novembre 2008)

Riflettendo sull’argomento, puoi provare a esaminare, alla luce delle tue esperienze e delle tue conoscenze, il significato che oggi assumono i vizi capitali, e quanto la società contemporanea faccia o meno di essi pilastri portanti del proprio sistema.

E soprattutto anche quanto i suddetti vizi possano essere effetto e non causa di un malessere diffuso che si esprime in forme oggi del tutto nuove e che colpisce intimamente l’individuo nella sua libertà fisica e spirituale.