Purgatorio – Canto XVIII

Accidia: dolce vita della pigrizia

Salman Rushdie

L’accidia, uno dei peccati capitali, puniti nel cerchio V dell’Inferno, viene così definita dal vocabolario Treccani: “inerzia, indifferenza e disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa; più in particolare, nella morale cattolica, negligenza nell’operare il bene e nell’esercitare le virtù”.

Volendo offrire una interpretazione moderna del termine, potremmo aggiungere che si tratta di una sorta di pigrizia mentale che conduce all’inattività, alla malinconia, alla paralisi di ogni attività e della volontà.

Un male e una pena diffusi nel mondo contemporaneo, cantati e descritti da scrittori, registi, poeti, come emerge dall’articolo che segue, e che diventano talvolta espressione e simbolo di una società del benessere, o presunto tale.

In molti casi l’accidia diventa l’immagine di un certo mondo giovanile che deluso dall’universo degli adulti, colpiti dalle crisi degli ideali, incapace di trovare stimoli nuovi al proprio esistere trova rifugio, come estrema forma di ribellione, proprio nell’inerzia e nell’apatia.

Leggendo il testo che segue è possibile farsi un quadro di cosa l’accidia, colpa punita da Dante nell’Inferno, possa oggi significare e quali forme possa assumere. 

Fellini certamente è il maestro assoluto dell’accidia inerte. Il protagonista dei suoi film è quasi sempre, in un modo o nell’altro, un vitellone: un perdigiorno, a volte povero, a volte benestante, ma sempre uno sperperatore, la cui incarnazione suprema è il Mastroianni della Dolce vita e di , alienato, malinconico, alla deriva, passivo, perduto…

Ciondola lungo via Veneto, poi per sudici vicoli e poi ancora nel mondo della dolce vita, nelle case dei ricchi. Vaga tra feste mosce e decadenti, sopraffatto dall’inerzia, dall’incapacità di operare una scelta o di dare un impulso alla propria vita, come per una paralisi dello spirito…

Attorno a lui, in salotti e ristoranti, e nella città notturna battuta dal rapace fotografo Paparazzo, vagano gli abitanti del suo mondo senza emozioni, annoiate bellezze con espressioni vitree e perfette acconciature.

Queste incarnazioni di Accidia non sono semplicemente dannate. Sono già all’Inferno, a ballare con Saligia tra le fiamme…

È l’accidia che paralizza Amleto: una disperata apatia, la depressione patologica che annichilisce la volontà e può essere indotta da un trauma esistenziale. Come scoprire che tuo zio ha ucciso tuo padre, e tua madre dopo lo ha sposato.

E se l’accidia fosse da intendersi come un peccato, allora forse ne seguirebbe che Amleto, il peccatore, ha meritato di morire. Ma non è questa la sensazione che Shakespeare desta in noi. Da scrittore non troppo devoto quale era, rifiuta la condanna religiosa dei suoi personaggi e, anzi, ci consegna una tragedia molto terrena

La letteratura, in genere, non è stata gentile nei riguardi dell’accidia… In Montaigne e Conrad, così come in Dante e Catullo, l’accidia è invariabilmente condannabile. L’azione è il bene, l’accidia è il male. Questo è tutto. 

Di certo l’argomento migliore, più forte, più divertente, più profondo a favore dell’accidia, senza il quale nessuna indagine sul tema sarebbe completa, può riassumersi in un’unica parola: Oblomov

Oblomov, il più accidioso della pur indolentissima nobiltà terriera russa dell’Ottocento, e l’eroe – sì, l’eroe! – dell’omonimo romanzo di Goncarov… 
Oblomov  sta a letto tutto il giorno, a volte sveglio, a volte sonnecchiando; gli occorrono centocinquanta pagine non per addormentarsi, bensì per alzarsi. E quando poi è costretto a farlo … è arrabbiato, e il perché è abbastanza chiaro. È colpa di Zachàr, il suo servitore che ha fatto spazientire quel padrone orizzontale; la rabbia di Oblomov nei suoi confronti si esprime in frasi secche e dirette, in urla, e in un confuso abbozzo di castigo corporale.

Ovviamente noi possiamo intendere l’accidia di Oblomov, la sua oblomovscina, la sua oblomovite, il suo oblomovismo, come il prodotto di un’infanzia viziata e molle, o una metafora della decadenza e del torpore della classe che rappresenta – e ci sarebbe del vero – ma un’esegesi così limitata non centra il punto: perché in ognuno di noi vive un piccolo Oblomov che implora di essere lasciato languire per il resto della vita, affrancato da preoccupazioni e responsabilità, libero di essere – sì! – un felice parassita…

Non solo: benché sia innamorato, e la fanciulla – Olga – sia deliziosa, e benché voglia davvero sposarla, rimanda la decisione finché non è lei a decidere rompendo il fidanzamento. Lui è l’Amleto procrastinatore, è Bartleby, ed è anche tutti noi. Guardiamo lo stato in cui versa il mondo e vorremmo poterci nascondere. Oblomov si nasconde per noi.

Guardiamo l’altro sesso e ne veniamo sopraffatti. Oblomov si nasconde al nostro posto. Sappiamo di avere dei problemi e vorremmo che fossero lontani mille miglia. Oblomov li spedisce laggiù, si rifiuta di affrontarli: proprio come noi non possiamo fare, ma ci piacerebbe. L’oblomovismo giustifica e legittima la nostra accidia.

Linda Evangelista è una supermodella. No, Linda è la supermodella… «Noi supermodelle non ci svegliamo neppure per meno di 10.000 dollari al giorno». Frase spesso riportata in modo errato: «Non mi alzo neanche dal letto per meno di 10.000 dollari al giorno»; in entrambe le versioni di questa frase si combinano tre dei sette vizi capitali – Superbia, Avarizia e Accidia – mentre una normale reazione a essa, e in verità alla stessa signora Evangelista, potrebbe combinare elementi di Lussuria, Invidia e Ira. Solo la Gola è assente.

Niente male! OBLOMOV E LINDA EVANGELISTA Me li immagino in letti separati ma attigui, in una camera rococò, piena di luce e profumata di fiori. 

Oblomov, inquieto, cerca di non leggere i messaggi sulle sue difficoltà finanziarie che il maggiordomo gli porta.

Linda finge di dormire, in attesa che squilli il telefono con un’offerta superiore ai 10.000 dollari per potersi alzare. Il telefono squilla. L’offerta è per Oblomov. 10.000 dollari se accetta di scendere dal letto. L’offerta è abbastanza alta per consentirgli di liquidare tutti i debiti e restare felice a pancia all’aria, senza un patema al mondo. Lui declina. «Preferirei di no».

Rimangono a letto. Oblomov è soddisfatto e assonnato. Linda è infelice, agitata, incredula. Ma «il carattere è destino dell’uomo», come diceva Eraclito, ed entrambi sono in preda alla terribile sorte di essere loro stessi… «Non possiamo fare altro».

Non si muovono. Il maggiordomo Zachàr porta da mangiare su un vassoio d’argento ammaccato. Ma sia l’uno sia l’altra, per ragioni diverse, sono nella morsa dell’accidia, del peccato di accidia – Linda perché non ha ricevuto telefonate, Oblomov malgrado quella che ha ricevuto –, e non mangiano. 

 Adattamento da Salman Rushdie
(la Repubblica, 9 maggio 2011)

L’articolo di Salman Rushdie, grande scrittore e saggista indiano – noto purtroppo alle cronache mondiali non soltanto per le sue opere letterarie e di critica, ma anche per la terribile persecuzione di cui è tuttora oggetto da parte dei fondamentalisti islamici a causa della pubblicazione nel lontano 1988 de I versetti satanici ritenuti offensivi nei riguardi della religione di Maometto – offre una lettura straordinaria del tema dell’accidia e lo spunto per numerose riflessioni.

Per prima cosa può essere interessante ripercorrere l’itinerario letterario proposto dallo scrittore e leggere le storie di accidia menzionate, ora da Fellini, ora da Shakespeare, ora da Goncarov. Successivamente può essere altrettanto suggestivo riflettere sul possibile “oblomovismo” presente in ciascuno di noi e capire se certi atteggiamenti fanno parte anche del nostro quotidiano e in tal caso da cosa possono essere provocati o di cosa possano essere istintiva e umana reazione.