Paradiso – Canto XXXIII

L’ultimo paradiso

Pietro Citati

Ti offriamo, come lettura conclusiva nel quadro dei percorsi di “attualizzazione” sulla Divina Commedia, questo suggestivo passo dello scrittore Pietro Citati, senza commenti, senza introduzioni, senza note: una piacevolissima lettura, crediamo, che offre un’immagine inedita del Paradiso di Dante definito “l’ultimo Paradiso”.

Dante giunge nell’Empireo, ascolta la preghiera di san Bernardo alla Vergine, ne ottiene l’intercessione, e ora fissa gli sguardi, immobile, in Dio… Con gli sguardi protesi, dove la tensione dell’intelligenza si annulla nella contemplazione, Dante guarda; e vede tutto. Scorge i segreti di Dio e i suoi volti nascosti – almeno quanto può vedere un uomo «divinizzato».

Non importa che poi, tornato a terra, davanti al leggio e al tavolino, con la penna e l’inchiostro, egli non sappia rappresentare che un’ombra minima di ciò che ha contemplato. Forse nessuno aveva mai visto tanto.

Per molti mistici, Dio era come il sole, che acceca e fa chinare lo sguardo. Come la cogliamo nell’ultimo vertice del Paradiso, la luce di Dio rafforza invece lo sguardo, prolunga la visione, e il viaggiatore non deve abbassare gli occhi… 

Il mondo dell’amore è divenuto il mondo della visione assoluta. Salendo il Paradiso in un giorno di primavera del 1300, Dante avrebbe potuto scorgere il regno dei cieli come era in quel momento. Vi saliva prima del Giudizio Universale; e le anime dei beati non erano ancora accompagnate dai corpi gloriosi, che rivestiranno alla fine dei tempi.

Sarebbe stato un Paradiso monco, dimidiato: perché nel mondo di Dante, dove il valore essenziale è l’incarnazione, l’anima trova la sua perfezione solo quando viene unita al corpo. Ma accadde qualcosa di inconcepibile, che Dante poté immaginare solo in uno di quegli attimi di follia che nutrivano il suo genio.

Per grazia, quel giorno di primavera del 1300, Dio fece contemplare a Dante la rosa dei beati non come era in quel momento: ma quale sarà dopo il Giudizio Universale, quando i beati indosseranno finalmente i loro corpi gloriosi. 

Dunque non solo Dante vide tutto – ma lo vide come sarà alla fine dei tempi. Quale sguardo avrebbe potuto essere più completo? Tutto, e tutto qui, ora, finalmente compiuto. Tutti i sogni e le speranze, che gli uomini cristiani spostavano nel futuro, le immagini che speravano ardentemente di conoscere, erano già realizzate nella visione assoluta, prima che Dante scrivesse l’ultima parola del Paradiso.

Il futuro era annullato, bruciato: doveva soltanto realizzarsi in terra; ma intanto l’ultima parola della storia universale era stata già detta. Non c’è più storia. Siamo già entrati nel regno dell’eterno. Che Dante abbia potuto concepire l’ultima visione è straordinario: ma più straordinario è che abbia scritto il Paradiso – sebbene ogni volta che lo leggiamo, e poi torniamo a rileggerlo e a rifletterci intorno, ci sembri impossibile che qualcuno l’abbia scritto.

Dante possedeva un dono molto più importante della enorme immaginazione, della lucidissima intelligenza, della struttura meravigliosamente ordinata della sua mente. Era il signore della metamorfosi: un Ovidio moltiplicato; e lo sapeva benissimo: io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise! 

Con la stessa naturalezza con cui noi ci guardiamo allo specchio, diventava tutte le cose e le sensazioni e le impressioni e i sogni: ciò che era umano, e ciò che era bestiale e vegetale. Era stato serpe, albero, diavolo, fuoco, vento, lucciola, zanzara, nevicata, folgore, plenilunio. 

Ma ora – e all’inizio del Paradiso avvertiamo una specie di angoscia dietro le solenni dichiarazioni – egli è esposto alla più ardua delle sfide. Deve «trasumanare», varcando tutti i limiti, osando quello che nessuno aveva osato scrivere, raccontando le vicende di un uomo «divinizzato», cambiando sensazioni e impressioni, trasformando la natura della sua poesia. Dio, ispiratore della poesia.

Subito, nei primi versi del Paradiso, nell’invocazione ad Apollo, Dante chiarisce perché la sfida sia estremaEntra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue. Dio, l’ispiratore della poesia sacra, viene paragonato ad Apollo, quando spellò vivo Marsia, che aveva osato sfidarlo, e ne estrasse il corpo scorticato dalla pelle – la guaina, la «vagina» delle sue membra. 

Dunque la poesia sacra, che Dante sta per iniziare, porta con sé l’ombra di un delitto mitico: è essa stessa un delitto; ci distrugge, ci annichila, ci uccide, sia pure per farci uscire da noi e farci conoscere la rivelazione. Dante mette sull’avviso: il suo libro sacro sarà tremendo, molto più dell’Inferno, e chi oserà leggerlo dovrà contare su un coraggio intellettuale, che nemmeno per un attimo potrà distendersi e rallentare.

Tutta quella luce non ci illuda. Tutto quell’amore non ci incanti. Se il libro di Dante è tremendo, se senza fine l’Apollo cristiano spellerà davanti ai nostri occhi il corpo vivo di Marsia, è per una ragione evidente. Dio è tremendo. Come i veri credenti sanno Dio non è nulla di misurato o tranquillo o ragionevole o pacato: è «un infinito eccesso», una fatale sovrabbondanza rispetto a tutti gli uomini e alle cose create.

Come poteva Dante rispondere alla sfida di Apollo, fronteggiando «l’infinito eccesso» del divino? Avrebbe potuto annullare la lingua, precipitandola in un delirio di impotenza, facendo il vuoto nell’immaginazione e nell’espressione. Dante scelse la strada opposta. Per rispondere a quell’eccesso, diventò egli stesso un «eccesso infinito» rispetto a qualsiasi poesia, anche alla propria.

Sapeva che ciò che scriveva non era suo: non era più Dante Alighieri, che aveva vissuto a Firenze, che aveva parteggiato e filosofato, e aveva composto l’Inferno e il Purgatorio. Ora chi parlava, in lui, era Apollo cristiano: il fiume della poesia sacra, che si ingolfava in lui e varcava ogni riva.

Forse in nessun testo della poesia universale avvertiamo, come nel Paradiso, una immensa forza di dilatazione: una euforia, una gioia, una specie di paurosa e lucidissima ubriachezza, che supera ogni sensazione, come quella degli angeli-api nell’Empireo, inebriati de li odori….

Impiegò il latino, la terminologia filosofica, la lingua cifrata degli enigmi. Costruì mostruose perifrasi geografiche, portando la retorica dove non era mai giunta. Accumulò negli stessi versi una moltitudine di materiale metaforico, che proveniva da tutta la rosa dei venti delle immagini.

Allontanò tra loro i due termini del paragone, in modo che le cose paragonate sembrassero estranee; e con un colpo della mano nervosa le fece coincidere, come fossero una. Cosa importava che la sua lingua non fosse duratura, come non sono mai durature le parole umane? Sfruttando e intrecciando i linguaggi che muoiono ed appassiscono, oltrepassò tutti i linguaggi esistenti e la sua lingua e la lingua

Ma Dante conosceva meglio di ogni altro il pericolo della dismisura. Sapeva che, nei rapporti con Dio, l’eccesso appartiene a Dio, non all’uomo; e che davanti alla sovrabbondanza della ricchezza celeste, l’uomo si rivela per quello che è – miseria, fallimento, impotenza, deliquio, disastro.

Ciò che rende così drammatico il Paradiso è la serie di fallimenti che lo attraversano. In primo luogo, le facoltà umane di Dante non sopportano ciò che vede: il riso e la luce di Beatrice, la luce e il canto dei beati, lo splendore di Cristo.

E poi, anche se egli vedesse e sentisse tutto, se la sua mente fosse una fedele lavagna dove la visione si incide precisamente, Dante fallirebbe egualmente. Mentre esce da se stesso e sprofonda nell’abisso di Dio, perde la memoria di ciò che ha visto e compreso…

C’è qualcosa di più terribile. Quando la memoria è conservata, brucia e distrugge la mente che la contiene. E poi quante altre impotenze: la fantasia troppo viva o troppo debole, l’intelligenza che non capisce, la penna troppo umana, che non sa raccogliere quella piccolissima, dolcissima goccia di beatitudine conservata nel fondo del cuore… in Dante, l’esperienza mistica è al massimo della sua potenza.

Le assenze, le rinunce, i fori nella grande tela sono i culmini dolorosissimi della beatitudine: mai come allora, svenendo, perdendosi, sul punto di venire distrutto, Dante conosce ciò che non dovrebbe avere la forza di conoscere. Il divino si vela e si rivela nella sua scomparsa, nella sua momentanea assenza, che non esclude ritorni. Tutto ciò che Dante vede – ed è moltissimo, bagliori luminosi, torrenti d’acqua, canti soavissimi – lo scorge proprio perché è sorretto dalla forza dell’impotenza… giungiamo all’ultimo canto, con la contemplazione definitiva di Dio. Sappiamo che Dante vede: tutto ciò che un uomo divinizzato può vedere.

La sua è la visione assoluta, che da secoli il mondo attendeva… Anche se è giunto sulla vetta del regno dei cieli, il viaggiatore terrestre non fa che confermare la propria impotenza

Ma anche un’altra spiegazione è possibile. Dante non è un visionario dell’Uno immobile, come altri filosofi e poeti che hanno contemplato l’Essere, piegando la lingua a rappresentare ciò che sta sopra la curva dei cieli, oltre lo spazio e il tempo. La mistica di Dante è una grandiosa mistica del Movimento divino, più che una mistica dell’Uno, della stasi e della quiete.

La sua passione – passione che non ha dimenticato un attimo durante la Commedia – sale, come dicono le ultime parole, verso l’amor che move il sole el’altrestelle: verso quel Dio che muove velocissimamente gli angeli e i cieli e la Terra e le cose e le creature e le passioni umane; e che muove anche il suo libro che in questo momento crediamo di avere chiuso, mentre continua a agitarsi in noi e attorno a noi con una rapidità che supera quella del tempo.

Adattamento da Pietro Citati
(la Repubblica, 23 maggio 1993)